Ripartire dall’istruzione tecnica

Nell’intervista odierna rilasciata al quotidiano economico – finanziario ITALIA OGGI, il presidente CNGeGL Maurizio Savoncelli nel richiamare la priorità assegnata agli istituti tecnici da parte del premier Mario Draghi  durante il suo discorso programmatico al Senato, rinnova nuovamente l’esortazione che dalle stesse pagine aveva rivolto alle istituzioni e al mondo del lavoro a febbraio.

Data:
17 Marzo 2021

Nell’intervista odierna rilasciata al quotidiano economico – finanziario ITALIA OGGI, il presidente CNGeGL Maurizio Savoncelli nel richiamare la priorità assegnata agli istituti tecnici da parte del premier Mario Draghi  durante il suo discorso programmatico al Senato, rinnova nuovamente l’esortazione che dalle stesse pagine aveva rivolto alle istituzioni e al mondo del lavoro a febbraio. Una visione, la sua, non nuova a chi lo conosce, costantemente orientata a rilanciare l’occupazione giovanile, colmare il disallineamento tra percorsi di studio ed esigenze del mercato del lavoro, arginare il dilagante fenomeno dei NEET.

Presidente Savoncelli, che valutazione dà del “cambio di passo” del Governo sulla scuola?
È un segnale importante: se opportunamente valorizzati, come da tempo accade in Francia e in Germania (dove si contano, rispettivamente, 400mila e 1 milione di iscritti nei percorsi analoghi, a fronte dei 20mila in Italia), si può guardare con un certo ottimismo alla possibilità di far fronte al fabbisogno delle aziende di tecnici superspecializzati in indirizzi di studio specifici, come ad esempio la meccatronica e le tecnologie per il Made in Italy, dalla moda all’agroalimentare. Sarebbe tuttavia un errore “sganciare” questa riflessione da quella del più generale rafforzamento del segmento di istruzione terziaria professionalizzante, che prevede la distinzione tra gli ITS, appunto, e le lauree professionalizzanti.

Una distinzione coerente con gli obiettivi delineati dalla Strategia Europa 2020, sviluppata in Italia nel 2017 dalla “Cabina di regia per il coordinamento del sistema di istruzione tecnica superiore e lauree professionalizzanti”, voluta dall’ex Ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli.
Il documento, ancora oggi attualissimo e al quale il Consiglio Nazionale ha fornito vari contributi, si sviluppa partendo da un assunto ben preciso, ossia la volontà di “marcare l’identità dei diversi percorsi formativi”, connotando da un lato gli ITS come “Scuole speciali per le tecnologie applicate”, dall’altro le lauree professionalizzanti come viatico per le professioni regolamentate, in primis quelle ordinistiche. Da questo impianto metodologico nasce il decreto Fedeli 935/2017 (che segue il decreto Giannini 987/2016), quindi il decreto Bussetti 6/2018 e il decreto Manfredi 446/2020, che mette fine alla sperimentazione definendo le nuove classi di laurea, tra le quali la LP-01 “Professioni tecniche per l’edilizia e il territorio”, fisiologica prosecuzione per i diplomati CAT, Costruzione Ambiente e Territorio.

Che bilancio fa di questa prima fase?
Dopo un periodo di “rodaggio” finalizzato anche a spiegare ai target di riferimento (studenti, famiglie, docenti) le differenze tra un nuovo indirizzo di formazione universitaria di tipo tecnico, di durata triennale, e l’offerta formativa degli ITS, istituti tecnici professionali post-diploma (unitamente ai relativi sbocchi, professionali e occupazionali), l’appeal delle lauree professionalizzanti è decisamente in crescita: i dati MUR ci dicono che dai 381 iscritti dell’anno accademico 2018/2019 si è passati a 910 dell’anno accademico 2019/2020, per un totale di 1.291. Un incremento del 138,8%, dovuto anche al numero crescente di diplomati tecnici che si iscrive all’università, motivato dall’opportunità di acquisire un profilo di conoscenze specialistico in grado di favorire l’inserimento occupazionale, soprattutto nei settori nei quali la domanda di tecnici intermedi è particolarmente elevata.

Percorsi formativi che rispecchiano i fabbisogni della società: è questa la strada giusta per ampliare la platea dei laureati?
È una delle più incoraggianti, e gli esempi in tal senso non mancano: lo sviluppo della “cultura professionalizzante” ha consentito a molti paesi europei di incrementare il numero dei laureati, sorpassando in maniera netta l’Italia. Tuttavia, la sola istituzione delle lauree professionalizzanti non basta, occorre anche renderle abilitanti per ridurre i tempi di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro: nei fatti, quello che è avvenuto con la laurea in medicina nel contesto emergenziale causato dal Covid-19. Una spinta in questa direzione è arrivata dal disegno di legge presentato dall’ex Ministro dell’Università e della Ricerca, Gaetano Manfredi, sulle lauree abilitanti all’esercizio delle professioni regolamentate: nell’impianto proposto la tesi di laurea, conclusiva del corso, è sostituita da un vero e proprio esame di abilitazione, e la commissione giudicatrice è integrata da professionisti di comprovata esperienza designati dagli ordini o dai collegi professionali.

Prove generali di dialogo strutturale tra scuola e lavoro.
Si, ma non solo: la previsione, al terzo anno, di tirocini formativi da svolgersi in contesti lavorativi reali quali studi tecnici, ordini professionali o imprese, fornisce agli studenti l’occasione di conoscere a fondo il proprio territorio, e fare di questa conoscenza il punto di partenza per elaborare, ad esempio, strategie di valorizzazione, messa in sicurezza, rigenerazione, turismo sostenibile; il tutto all’insegna del binomio ambiente e digitalizzazione, principale driver e asse portante del PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa a Resilienza che definisce obiettivi, riforme e investimenti che l’Italia vuole realizzare con i fondi europei di Next Generation EU. Più in generale, rafforzare il sistema delle lauree professionalizzanti (e con esse il segmento dell’istruzione terziaria professionalizzante) può contribuire a rimettere in moto quell’ascensore sociale da troppo tempo bloccato, anche a causa di due criticità del sistema d’istruzione, come evidenziato in un recente rapporto dell’INAPP, l’Istituto Nazionale per le Politiche Pubbliche (“Istruzione e mobilità intergenerazionale: un’analisi dei dati italiani”): la scelta della scuola secondaria di secondo grado, raramente orientata verso sbocchi professionali concreti; quella dell’università, laddove si riscontra una maggiore difficoltà dei ragazzi provenienti da contesti svantaggiati (bassi titoli di studio dei genitori) ad orientarsi verso i corsi di laurea che garantiscono una maggiore occupazione, quali appunto quelli tecnico-scientifici.

Volendoci porre la stessa domanda del premier Mario Draghi, ossia se stiamo facendo “tutto il necessario per promuovere al meglio il capitale umano, la formazione, la scuola, l’università e la cultura”, ritengo doveroso partire (anche) da qui.

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Ultimo aggiornamento

24 Marzo 2021, 23:20